Dopo quasi tre mesi di PAUSA, eccomi a scrivere di nuovo…
Mentre l’Italia si trovava in piena emergenza Coronavirus, in America si faceva ancora finta che il virus non sarebbe mai arrivato da questa parte dell’Oceano.
La maggior parte dei newyorkesi mi chiedeva come stesse la mia famiglia e si preoccupava per la situazione italiana mentre per me era assurdo vedere come non si corresse ai ripari anche qui.
Ad amici e colleghi continuavo a ripetere che l’assenza dei casi dipendesse solo dal fatto che in molti non fossero andati dal dottore o in ospedale perché non coperti dall’assicurazione medica.
Era come guardare un film in divenire, conoscendone già la trama e non potendo far nulla per poter cambiare le cose.
Ogni volta che sollevavo l’allarme mi guardavano come se stessi dicendo assurdità – esperienza comune a tutti gli amici expat.
Quando i miei colleghi – non coperti da assicurazione – iniziarono a chiedere di essere sostituiti aspettando che la febbre passasse da sola, mi ritrovai ad insegnare ancor più del solito. Per me era l’ennesima prova di quanto dicevo da giorni.
Non ho mai avuto paura per la mia salute, pur soffrendo d’asma, mentre ho sempre avuto il terrore di poter essere un pericolo per i miei studenti. Così approfittavo delle mie lezioni per condividere le direttive italiane di cui allora ancora a NY non si parlava.
L’Emergenza Nazionale negli USA fu dichiarata venerdì 13 marzo e, nonostante questo, la stessa sera e il giorno dopo avevo ancora più persone a lezione: perché infatti non approfittarne per provare qualcosa di nuovo?! …
Dopo aver insegnato quattro lezioni, sabato venne a prendermi Luca per andare Upstate NY – approfittiamo sempre dei nostri giorni liberi per lasciare la frenesia di NYC alle spalle e ricaricare le batterie nella natura.
Per fortuna anche questa volta avevamo il bagaglio pieno di provviste e la domenica mattina – 15 marzo – mi svegliai con la febbre a 40.
Iniziò così la nostra quarantena: isolati da tutto e da tutti per 15 giorni.
Due giorni dopo anche Luca aveva la febbre oltre i 40 e, vista la scarsità dei test, il nostro dottore ci aveva suggerito di andare in ospedale solo nel caso in cui avessimo avuto problemi respiratori, che per fortuna non abbiamo mai avuto.
Mi venne poi comunicato che lo stesso venerdì 13 ero stata esposta ad un caso positivo e gli esiti delle analisi del sangue che Luca ha appena ritirato dimostrano la presenza di anticorpi: ora abbiamo la conferma che si trattasse di Covid-19.
Durante quei 15 giorni in isolamento, la notizia più drammatica ci arrivò dall’Italia: un carissimo amico di famiglia era stato ricoverato d’urgenza in ospedale. Eravamo tutti in apprensione, e ci aggrappavamo ad ogni segnale di speranza… finché, sei giorni dopo, ricevetti la chiamata di mia mamma; non ce l’aveva fatta.
Per giorni sono stata soffocata da dolore, senso di impotenza e rabbia. L’unico modo in cui riuscivo ad esprimere le mie emozioni era attraverso immagini e poche parole che ho continuato a condividere sui Social Media.
Nello sconforto, è stato fondamentale sentire quando amore fosse tutto intorno. L’amore cura le ferite. Sempre, anche in questo caso.
La foto che ho scelto per la “copertina” di questo post è stata scattata dai nostri cari amici di famiglia, Alfreda e Roberto: dopo aver finito di fare i “cappelletti” li hanno disposti così per dare il buongiorno alla figlia infermiera, Benedetta, di rientro dopo una lunga nottata passata nel reparto Covid dell’ospedale locale .
Insieme, ce la faremo. Anche a superare il dolore.