Silvana è una giornalista professionista, vive tra l’Italia e New York.
Scrive di spettacoli e cultura per diverse testate. Adora Broadway e Central Park ma, a dirla tutta, è finita dall’altra parte dell’oceano per colpa del jazz.
La trovate su Twitter come @porgyandjazz
Ecco il suo racconto di una giornata immersa nella neve, dopo il passaggio di Nemo.
Sbucare dalla metropolitana nella fermata di Columbus Circle, all’angolo sud ovest di Central Park, dopo un giorno (e una notte) di neve – come è successo dopo Nemo – significa girarsi e vedere una meraviglia fatta di linee bianche poggiate leggermente su ogni singolo ramo di alberi e cespugli.
Non sono neanche le undici del mattino e il cielo è già pulito, azzurro. La neve – tanta neve – qui è esattamente come te la aspetti. Come nelle cartoline, come nei film. Tranne che per un dettaglio: è più bella.
Nonostante molti newyorchesi si divertano a elencare tutti i lati negativi di una poderosa nevicata (il ghiaccio, il fango, le cadute, per citare solo quelli più banali), la verità è che Central Park è pieno zeppo, e sembrano tutti divertirsi parecchio.
A sud ci sono i turisti, tutti intenti a fotografare le papere del laghetto che non si fanno intimidire nemmeno dal ghiaccio, e a guardare il panorama da sopra la pista di pattinaggio, la cui grata superiore si è trasformata in un gigantesco e candido waffle di neve. Per non parlare del ponticello sopra il lago, completamente incorniciato dal bianco, o di Bethesda Fountain, più a nord. Uno spettacolo.
Ed è questo, in fondo, il motivo per essere qui: la bellezza. Ti ritrovi a passeggiare in tranquillità, cercando di non scivolare, ma soprattutto immerso nella perfezione silenziosa di questo panorama immacolato, mentre il sole di mezzogiorno fa brillare letteralmente ogni centimetro del parco.
Poi arrivi quasi all’altezza dell’Ottantesima strada. Cedar Hill. Il delirio.
Centinaia di bambini con i genitori, ragazzini in gruppo e fratellini abbracciati stretti scivolano a raffica dalla collinetta, ognuno aggrappato al proprio slittino colorato.
L’onnipresente organizzazione newyorchese va in corto circuito: nessuna ordinata fila indiana per salire sulla collina. Si scivola giù, poi si acchiappa lo slittino e si risale per lo stesso tragitto, mentre altri venti ragazzini scendono esattamente in quella direzione. Insomma, una specie di allegra ecatombe di ginocchia e caviglie, puntualmente falciate dallo slittino successivo. E la follia era proprio questa: si divertivano tutti. La loro spensieratezza era contagiosa, non riuscivo a smettere di guardarli (poi, purtroppo, qualcuno deve essersi fatto più male degli altri, considerato che mentre andavo via arrivava una barella).
Ma i pupazzi di neve?
Ci sono, ma i migliori erano a Washington Square Park, dove erano contemplati tutti i livelli di creatività: da quello a piramide, con una sciarpa a segnalare una parvenza umana, fino a quello perfetto con naso a carota e bottoni neri per gli occhi. In mezzo, ogni varianti immaginabile, compresi gattini, pupazzi seduti sulle panchine e una grossa mela con un po’ di rametti a comporre la scritta “I ♥ NYC”.